INTERVISTA A QZR s.r.l.
Continuiamo a correre!
ElleFree ha passato il testimone a QZR, compagni di piano e di merende (senza lattosio).
Arnaldo e Luigi, co-founder di QZR, riflettono e fanno riflettere sul significato della parola “comunicazione” e non solo.
Per scoprire chi hanno nominato per la prossima intervista, dovete per forza arrivare in fondo.
Buona lettura!
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Valeria: è corretto definirvi un’agenzia di comunicazione? Chi vuole rispondere?
Luigi: Arnaldo
Arnaldo: grazie Luigi…sai che non lo so? Non so risponderti. Ci siamo interrogati spesso…Ti dico le mie impressioni. Per come l’abbiamo sempre immaginata, l’agenzia di comunicazione è composta da una serie di soggetti che coordinano, gestiscono..è un’organizzazione “istituzionalizzata”. Noi invece facciamo tante cose in maniera artigiana, la qual cosa può essere interpretata anche in maniera negativa, ma non deve esserlo. Il nostro è un lavoro molto artigianale; abbiamo cominciato a lavorare nella comunicazione intendendola come “mondo visivo”, la parte informatica era parallela. Adesso siamo nel pieno dello sviluppo informatico e in questo sviluppo la comunicazione visiva ha sempre un ruolo centrale. È il nostro marchio di fabbrica: elaboriamo tutto il processo di comunicazione internamente.
Luigi: una cosa che ci aiuta di solito in questa fase è definirci “progettisti della comunicazione”. Questa espressione riassume in sé non solo la grafica comunicativa, che è la nostra componente più tecnica e ponderata rispetto a quello che facciamo, ma anche il mezzo che serve per trasmettere la comunicazione. Insomma, prende in considerazione tutto il processo ed essere progettisti significa proiettare, guardare al futuro e prepararsi per esso.
La curiosità era proprio questa, ossia capire cosa significa il termine “comunicare”. Secondo me tante volta si usa a sproposito, si pensa solo ad esprimersi, magari utilizzando una grafica particolarmente accattivante. Mi chiedo, tuttavia: stai comunicando? Quindi ecco la prossima domanda: cosa significa comunicare?
Arnaldo: questa risposta invece ce l’ho chiara. Il problema della comunicazione è che spesso e volentieri l’idea della comunicazione nasce e si esaurisce nell’atto concreto dell’espressione, quindi: io adesso che sto parlando con te, io che faccio un post su FB, io che faccio un manifesto, un libro, un sito internet.
In realtà la comunicazione si esaurisce nel momento in cui il mio lettore, utente, spettatore, opera in maniera corretta in relazione a questo atto. Ti faccio degli esempi pratici: gli autori di libri pensano di aver concluso il loro lavoro nel momento in cui hanno messo fine al loro documento, i grafici pensano di averlo finito quando hanno mandato in stampa il loro lavoro. In realtà il processo è più complesso perché in questo modello che ho appena descritto viene escluso l’unico soggetto che interagisce, che è l’utente. La comunicazione necessita di un processo di verifica finale, che solitamente non viene fatto. E’ una cosa su cui noi ci siamo sempre concentrati tanto. Luigi ha fatto bene a mettere l’accento sull’elemento della progettazione.
Ti faccio vedere questo libretto, un piccolo prodotto che abbiamo realizzato mille anni fa oramai, ossia nel 2016. L’elemento interessante di questo prodotto è che la Mondadori ci chiamò per costruire un contenuto che potesse essere divulgato tra i docenti per insegnare la “flipped classroom”. Ci chiesero di prendere il testo e fare quello che ritenevamo opportuno affinché questo funzionasse nella sua massima possibilità di comunicazione. Così abbiamo fatto. Se vai a vedere in fondo, infatti, QZR risulta essere sia sotto la voce “progetto grafico e impaginazione” ma anche sotto la voce “redazione”. Il risultato è che questo testo noi lo abbiamo proprio riscritto: riscrittura dei testi ma anche delle immagini. La forma è il contenuto, il contenuto è la forma. La grafica è scrittura, lo dice la parola stessa. Scrittura significa lasciare un segno. Il problema di base è questo quando si parla di comunicazione, ossia che si perde questo aspetto. In realtà la comunicazione è sempre scrittura (nel senso esteso del termine). Esiste una grammatica attraverso la quale noi possiamo utilizzare degli elementi e questi elementi possono essere decodificati in maniera più chiara, meno chiara, più pertinente, meno pertinente. Nelle scuole esiste l’insegnamento della lingua italiana ma non esiste in nessuna maniera l’insegnamento della lingua visiva.
Sto per fare una domanda che forse è un po’ ingenua e in parte, dicendo che la scuola non insegna la lingua visiva, forse avete già risposto. Ma voglio farvela lo stesso! La comunicazione visiva non dovrebbe essere un po’ scontata? Dal momento che impari a comunicare parlando e scrivendo, non dovrebbe essere intuitivo, l’ABC dico, non dico che tutti debbano fare il vostro mestiere, è un mestiere appunto. Ma l’ABC non dovrebbe essere un po’ scontato?
Arnaldo: no. Assolutamente no. Questa è una certezza su pietra.
Luigi: è una questione di sensibilità che si assume nel tempo. Ci sono persone che sono state circondate dal bello (ci capitano ad esempio clienti che hanno o vivono gallerie d’arte, che fanno cose basate su canoni estetici molto più sofisticati di quelli che facciamo noi) che, nel momento in cui devono produrre qualcosa di comunicativo fanno delle cose brutte, ma non brutte perché tecnicamente non funzionano. Proprio brutte esteticamente. Che chiunque ti direbbe: riguardala e valutiamola. Abbiamo notato che, soprattutto nell’ambiente della comunicazione digitale, in questo momento non c’è un’etichetta di come si scriva visivamente mentre se tu mandi una lettera ad un collega o a un fornitore, hai sempre un certo grado di formalità; nello scrivere digitale non c’è ancora questo grado di formalità e, anzi, a volte si cerca di abbatterlo per essere più vicini alla persona con cui si comunica. Tuttavia questo è sbagliato perché mandi dei messaggi contraddittori. O è una strategia voluta, cercata, studiata oppure diventa un’operazione sbagliata…ad esempio, la comunicazione digitale istituzionale che usa una terminologia non istituzionale per avvicinare i giovani, può risultare goffa.
Arnaldo: quando frequenti le scuole pubbliche o, in generale, gli uffici pubblici, trovi una quantità di horribilia generati da una quantità di fogli appiccicati ovunque dove ci sono scritte una quantità di cose, un’infinità di cose scritte …ovviamente in Comics Sans perché non puoi dire “Non buttare la carta” senza essere un po’ simpatico. Questo mi fa venire in mente un discorso più ampio che ti voglio fare. Ieri ero con un cliente importante e stavamo parlando di segnaletica. Penso non ci sia niente al mondo che debba essere più standardizzato della segnaletica, perché deve essere immediata, intuitiva, deve farti muovere all’interno dello spazio senza essere però arrogante. Ecco, non eravamo d’accordo sul fatto che i cartelli dovessero avere tutti la stessa dimensione. Il lavoro di maieutica che abbiamo fatto con loro è stato: ripartiamo da zero.
De Filippo diceva: “chi cerca la vita, trova lo stile. Chi cerca lo stile, trova la morte”. Per il teatro mi sembra sia una buona metafora. Se una cosa ti appartiene, ti appartiene perché fa parte di te, quando la esprimi la esprimi in maniera sincera, allora entra in uno stato di flusso dove tutto è automatico. Quando invece cerchi lo stile, a quel punto la maschera crolla subito e si vede che sei talmente forzato che a un certo punto andrà a monte e questo succede quando non hai chiaro cosa stai facendo. Quello che dobbiamo chiederci è: perché stiamo facendo questa operazione, con che obiettivo la stiamo facendo, di conseguenza cosa vogliamo raccontare alle persone, qual è il modo migliore per farlo. Se segui un processo logico allora arrivi ad una soluzione.
A proposito di segnaletica, ricordo di aver letto degli studi interessanti sulla comunicazione all’interno degli aeroporti, quelli grandi intendo. Il tema era: qual’è il modo corretto per far spostare il viaggiatore all’interno di questo spazio?
Luigi: la comunicazione dello spazio non significa solo segnaletica ma cosa lo spazio ti sta comunicando; indica quello che puoi o non puoi fare nello spazio. Questo è un elemento molto importante da tenere in considerazione. Ci accompagna silenziosamente nella nostra vita, in tutti gli ambienti che attraversiamo perché l’uso degli spazi, delle forme, dell’arredamento, dei colori, della segnaletica stessa (che è la parte più esplicita), le porte chiuse, la non segnaletica… l’assenza della segnaletica. Queste sono tutte cose che comunicano in nome dello spazio.
Arnaldo: ha fatto bene Gigi a precisare questa cosa perché questo è un elemento fondante. Gli architetti fanno il loro lavoro, pensando che dopo qualcuno verrà a mettere la segnaletica. Questa cosa non va bene, lo spazio dovrebbe comunicare senza segnaletica. Di solito quando faccio lezioni sulla “comunicazione” porto con me una targa fatta nel 1967 ed è la targa della PIONEER che è una targa che Carl Sagan e sua moglie disegnarono per la NASA prima che questa sonda venisse spedita nello spazio. La targa fu disegnata con l’idea che, forse, un alieno l’avrebbe trovata e l’avrebbe saputa interpretare. Ogni volta che inizio le mie lezioni all’università, consegno la targa a tutti quanti, senza dire che cosa sia e chiedo a tutti di interpretarla. Nessuno è capace di capirci niente quindi immagina un alieno. Un umano ha fatto quella targa con il principale presupposto che un non umano ci potesse capire qualcosa.
Luigi: un concetto da applicare sia alla comunicazione fisica che a quella digitale è quello di “affordance” che significa che le cose comunicano anche in nostra assenza e nonostante quello che noi vogliamo dire. Un esempio classico è quello delle maniglie delle porte con la classica scritta: spingere o tirare. Ogni volta, leggendo, mi chiedo: ..aspetta…devo spingere o tirare ? Il teorico dell’affordance ha detto semplicemente, quello che deve essere spinto non deve avere una maniglia, quello che deve essere tirato deve avere una maniglia. Le porte che applicano questo concetto hanno una placca nel lato in cui devi spingere e una maniglia che è prensile dalla parte in cui devi tirare.
A tal proposito potremmo fare una grande dissertazione sul design contemporaneo.
Arnaldo: c’è un libro che consigliamo a tutti di leggere che si intitola “La caffettiera del masochista”, sottotitolo: “Psicopatologia degli oggetti quotidiani”.
Lo leggo.
Arnaldo: …gli oggetti comunicano con noi e quello che comunicano tendenzialmente è che noi siamo stupidi. Anche tu, prima, che cercavi di fare una cosa con lo smartphone e non riuscivi a farla non hai pensato che lo smartphone fosse fatto male ma che tu fossi stupida.
Di fronte alla tecnologia penso sempre questa cosa di me.
Arnaldo: però questo è un problema. In realtà il nostro lavoro si deve occupare di questo. Ti do un ultimo ingrediente. Qual’è la differenza fondamentale tra la comunicazione che stiamo facendo adesso e quella che realizziamo tutti i giorni? Quella che stiamo facendo adesso si articola così: io ci sono, se tu hai dei dubbi me lo chiedi. Io vedo poi le tue espressioni, vedo che non capisci, che segni qualcosa e te lo rispiego. Il cellulare, invece, ossia lo “strumento tecnologico”, sfrutta la scrittura testuale o grafica, che deve funzionare anche in assenza dello scrittore. Quindi tutto l’impegno di chi fa il nostro lavoro deve fare comprende anche la verifica, il controllo, perché tutto deve funzionare senza di me.
Andiamo avanti. Voi siete i soci, avete poi altri 3 collaboratori. Se non sbaglio siete tutti uomini..ma è un caso o è voluto? ElleFree, che vi ha nominato, è composta da sole donne. Loro a questa domanda hanno risposto che uno staff al femminile è voluto.
Luigi: è un caso, non abbiamo mai scelto uno staff solo al maschile. Tuttavia è statisticamente specchio dell’ambiente in cui lavoriamo. L’ambiente della programmazione in questo momento ha ancora, purtroppo, una componente prettamente maschile. Le statistiche italiane. l’ultima volta che le ho lette, parlano di un 95% vs un 5%.
C’è una spiegazione a questo fenomeno?
Luigi: abbiamo approfondito la cosa proprio per parlarne ai giovani nelle scuole di III, IV, V superiore. Quando i ragazzi devono pensare a che università prendere, c’è ancora un retaggio mentale che prevede che le materie scientifiche siano ancora appannaggio degli uomini e questa cosa, paradossalmente, viene perpetrata dagli insegnanti dell’università stessa. Non è solo l’ignoranza dei genitori, che magari sono rimasti un po’ indietro, ma si parla di un sistema che, in generale, non favorisce questo sviluppo. Credo sia solo una questione di tempo, sinceramente e di impegno da parte di tutti. Nel nostro caso, quasi non abbiamo scelto di avere dei dipendenti, nel senso che essere all’interno di un polo tecnologico ci ha permesso di non fare il classico annuncio di lavoro ma di lavorare molto sul passaparola.
Se non aveste fatto questo lavoro, cosa avreste fatto?
Arnaldo: niente
Luigi: io ho provato ad essere dipendente di un’altra società, sempre in questo ambito, appena uscito dall’università però non mi sono trovato per il fattore umano. E’ molto più bello gestirsi e gestire, anche se molto molto più faticoso. Una cosa importante che abbiamo imparato nel tempo e che cerchiamo di comunicare ogni volta che veniamo approcciati da una start up nuova è che mentre io volevo fare il programmatore e Arnaldo il grafico, ora siamo degli imprenditori e facciamo anche grafica e programmazione e questa cosa la impari nel tempo sbattendoci le ossa sopra, nel senso che non c’è una formazione trasversale sull’imprenditoria. Nessuno ce l’ha data, abbiamo provato a cercarla e non la abbiamo trovata.
Arnaldo: Milton Glaser diceva “art is work”. Milton Glaser è probabilmente uno dei più grandi grafici del 900, è quello che ha disegnato “I love NY” con il cuore. Proponeva questa visione con lo scopo di riavvicinare l’arte alle attività “umane” perché riteneva che questa dicotomia avesse impoverito la nostra qualità della vita. Il nostro lavoro ha dei vincoli, un committente, un utente finale, un obiettivo da raggiungere in tempi chiari e limitati. Questa cosa però non ci mette paura, anzi ci piace perché ogni volta è una sfida: non devo fare un sito ma devo rendere accessibile la conoscenza.
Se doveste fare un’analisi SWOT della vostra azienda…Punti di forza, Punti di debolezza, Opportunità, Minacce…ossia una qualche condizione esterna che potrebbe recarvi problema nel raggiungimento del vostro obiettivo.
Arnaldo: l’unica cosa che mi viene in mente è quando ci saranno queste tempeste solari..
Luigi: ho pensato esattamente la stessa cosa. …se ci fosse una qualche catastrofe in cui i lavori intellettuali risultassero superflui, noi al mondo quale tipo di supporto potremmo dare? Nel momento in cui Internet crolla e gli stampatori non stampano più, noi al mondo che aiuto possiamo dare?
Arnaldo: in realtà basta una guerra. Mi è venuta in mente una minaccia che è venuta fuori ieri mentre pranzavamo. La nostra unica minaccia è Capitan Uncino. Noi stessi abbiamo paura di quando diventeremo vecchi. Il digitale ci ha insegnato che le cose mutano ad una velocità estrema. Abbiamo realizzato un sito due anni fa e quando lo riguardiamo oggi pensiamo che quasi quasi sarebbe da rifare da zero ma non perché fossimo incompetenti quando lo abbiamo realizzato ma perché le tecnologie sono avanzate talmente tanto e così rapidamente che sono cambiate le esigenze, i modi di scrivere, di pensare un sito, di pensare alle interazioni. A noi essere nel pieno della tempesta ci garba da morire, con le vele spiegate e con la bandiera dei pirati.. quindi andiamo avanti carichi. Il problema è: quando il nostro cervello si atrofizzerà o comunque cominceremo ad avere dei “credo”.., come faremo?
Luigi: un’altra minaccia, molto ipotetica ma che potrebbe minacciarci davvero, è l’isolamento. Il tipo di lavoro che facciamo è strettamente legato alle relazioni umane e professionali che nascono. Non è nella nostra esperienza andare a cercare il cliente, anche se ovviamente si può fare ma, per fortuna, non abbiamo mai dovuto fare campagne acquisizioni clienti. Lavoriamo per passaparola. E’ il nostro lavoro che parla per noi.
Arnaldo: noi prima stavamo in centro storico da soli, un sardo e un valdostano che non conoscevano il territorio lucchese ..eravamo completamente abbandonati a noi stessi, non ci considerava nessuno e non sapevamo dove sbattere la testa. Noi però, essendo figli del digitale, lavoravamo per Bologna e per Milano. Poi siamo arrivati al Polo…stavamo qui da soli in ufficio, avevamo una linea fissa e guardavamo il telefono dicendo: ti immagini.. un giorno il telefono suonerà e ci chiederanno un progetto! Ci sembrava una cosa incredibile.. e oggi siamo tutti i giorni in call. Che poi su questo dovremmo fare una riflessione: quando sento le persone che parlano di smart working perenne..dovremmo farci una domanda. Ma che ruolo abbiamo immaginato per il lavoro nella nostra civiltà? Abbiamo un ruolo sociale sì o no?
Luigi: Per i punti di forza propongo “Ibridi” per il fatto che sappiamo quello che non siamo, non siamo grafici, non siamo programmatori, siamo entrambe le cose e questo ci ha sempre aiutato perché difficilmente troviamo competitor bensì altre società con cui possiamo collaborare.
Arnaldo: questa situazione ibrida ti consente di avere più aiutanti che minacce. Pensiamo alle persone che abbiamo assunto e che hanno contribuito a sviluppare specifiche aree della nostra attività: Luca con la passione per i giochi, Salvo con quella per la musica, Simone ha portato un desiderio manageriale dello sviluppo informatico. L’idea non è quella di forgiare in maniera fordistica dei nostri “mini me”, delle istanze di QZR ma QZR è le persone che ne fanno parte.
Vuoi dire che QZR accoglie, nel significato proprio della parola Accoglienza: fare spazio a qualcun’altro.
Arnaldo: esatto. Generare del vuoto. Siamo vuoti. Se avessi detto questa cosa in Giappone sarebbe stato di grande vanto. Se lo dico in occidente è un disastro.
…Debolezza…
Luigi: una debolezza che abbiamo e che credo sia comune al nostro tipo di società è la mancanza di ripetitività sul lavoro, nel senso: molti clienti che abbiamo sono “one show”, ossia arrivano con un problema, risolvono il problema e poi li rivediamo tra due o tre anni, quando nascerà magari un nuovo problema.. ma non abbiamo la certezza che torneranno.
Arnaldo: ho scritto sartoriale.
Manca un’opportunità, ossia: condizioni esterne che vi possono aiutare nel raggiungimento del vostro obiettivo.
Arnaldo: più la digitalizzazione andrà avanti, più si evolverà, più ci saranno degli automatismi e più noi ci potremo dedicare ad altro. Ad esempio, invece di occupare il nostro tempo nello sviluppo di un blog di una persona, che lo fanno benissimo un sacco di piattaforme top, noi possiamo dedicarci allo sviluppo di uno strumento più potente e offrire servizi sempre maggiori agli utenti. In questo senso per noi l’evoluzione digitale è un’opportunità.
Ultimissima domanda. Il giochino è questo, lo sapete. Ora dovete nominare qualcuno per la prossima intervista. Chi e perché?
Arnaldo: Pagina46. Stiamo collaborando su un progetto..loro sono molto informatici e in questo progetto noi ci stiamo occupando di una parte divertentissima di questo lavoro, che è il design delle interfacce. Il rapporto tra noi è iniziato sul tema dei giochi: loro hanno l’idea di trasformare la loro applicazione con delle modalità game, ludiche. Discutendone, però, ci siamo resi conto che prima di arrivare a mettere la componente ludica bisogna che tutte le carte siano a posto. E’ bello giocare a qualcosa che sia comprensibile. Se il gioco diventa che devo capirci qualcosa, diventa un puzzle e non tutti hanno la passione dei puzzle e, soprattutto, il puzzle richiede tanto tempo. Lo so perché non ne ho mai finito uno. I giochi sono dei fluidificatori di meccaniche e così anche le interfacce degli utenti sono dei fluidificatori di processi. Dove non arriva la macchina, perché dobbiamo fare per forza una serie di azioni, arriva l’interfaccia per darti chiarezza di cosa stai facendo.
Valeria: grazie ragazzi, è stato molto istruttivo parlare con voi!
Dove trovare Arnaldo e Luigi
www.qzrstudio.com
Facebook: @qzrstudio
Instagram: @qzrstudio
…e ovviamente al Polo Tecnologico Lucchese